Lattoferrina, Lisozima, Nac: la nuova frontiera di integrazione a supporto del sistema immunitario | Dottor Massimo Spattini
- 11 gen 2021
C’è ancora molta confusione, un certo scetticismo – per non dire pregiudizio – sul mondo degli integratori. Non nego che esista un notevole business, come è anche lecito che sia, intorno alla moltitudine di compresse e polveri di composti di derivazione naturale. Va da sé che una corretta e bilanciata alimentazione sarebbe teoricamente sufficiente per garantire l’apporto dei macro e micronutrienti, fitoterapici compresi. Con “bilanciata alimentazione” si intende basata su vegetali, frutta, legumi, spezie, erbe e funghi da coltivazioni non intensive e biologiche (cioè con la rotazione delle colture sui terreni e l’osservanza della stagionalità), carni biologiche e pesci non d’allevamento (meglio se pescati ad amo), uova di galline da allevamenti a terra, libere sia di muoversi che di cibarsi senza l’utilizzo di mangimi a loro estranei, antibiotici e ormoni. Credo abbiate capito che sono ben poche le persone al mondo che oggi riescono a nutrirsi così. Ecco che in nostro aiuto vengono allora quelle sostanze che, come dice la parola stessa che identifica la categoria, ci aiutano a integrare un’alimentazione impoverita. Nel campo della nutrizione e della salute abbiamo finalmente iniziato a capire come sia possibile non solo supportare efficacemente le terapie mediche convenzionali con questi integratori, bensì prevenire certe patologie e, ancora più a monte, puntare a una salute potenziata. Non passa giorno che non sia pubblicato uno studio, una revisione, una meta-analisi a supporto delle potenzialità di specifici composti. Fondamentalmente, di base, analizzeremo alcune di queste sostanze con spiccata attività antinfiammatoria e di supporto al sistema immunitario, di particolare interesse per il loro potenziale utilizzo a supporto delle terapie farmacologiche, anche in caso di infezione da virus. Un virus come Sars-CoV-2 è in grado di scatenare una tempesta infiammatoria di tale portata che può arrivare a far collassare i nostri polmoni e il nostro cuore, causando la morte.
In questo periodo, le sostanze migliori da assumere all’interno di un integratore per mettere il nostro sistema immunitario nelle condizioni di funzionare al meglio, sono le seguenti:
Vitamina C
La vitamina C è idrosolubile ed è la vitamina più popolare per quanto riguarda l’utilizzo come rinforzo del sistema immunitario. Il suo uso viene raccomandato come prevenzione soprattutto per le infezioni del tratto respiratorio alto, anche se questo non è stato realmente confermato da evidenze scientifiche, ed è in grado di limitare la durata e la severità dell’infezione. La vitamina C è presente in elevate concentrazioni all’interno delle cellule del sistema immunitario, dove esercita un’azione antiossidante di protezione dai radicali liberi che possono causare danni al DNA o favorire il suicidio della cellula stessa, oppure si accumula nei neutrofili, di cui stimola la proliferazione, favorendo la generazione di specie reattive dell'ossigeno e quindi l'azione microbicida.
La maggior parte delle infezioni in atto nel corpo fa scendere in campo cellule (fagociti) specializzate nell’inglobare virus, batteri e corpi estranei, tramite il contemporaneo rilascio di radicali liberi in grado di contrastare la replicazione dei virus. Questi potentissimi radicali liberi, tuttavia, sono un po’ come una bomba a mano altamente instabile, in grado quindi di arrecare danno anche alle cellule sane, coinvolgendole in una sorta di fuoco amico. La supplementazione con vitamina C sembra essere in grado di prevenire e curare le infezioni. A questo proposito è bene far presente che la vitamina C è una molecola molto simile al glucosio e quindi, in caso di insulino-resistenza dovuta a un consumo eccessivo di carboidrati e a un’alta quantità di grasso viscerale, non riesce a penetrare nelle cellule lasciandole così più indifese nei confronti dello stress ossidativo.
Altri meccanismi possibili possono essere la modulazione delle citochine infiammatorie, e lo stimolo dell’attività dei linfociti T e delle cellule Natural Killer. Normalmente, la vitamina C ha un effetto antiossidante e neutralizza il radicale libero perossido di idrogeno, ma ad altissime concentrazioni – come quelle ottenibili somministrando alti dosaggi per via endovenosa – diventa pro-ossidante e genera il perossido di idrogeno, che è particolarmente tossico per le cellule tumorali e i virus: questo è il razionale dell’uso della vitamina C endovenosa ad alte dosi utilizzata negli USA e in Cina durante l’epidemia COVID-19. Viceversa, per stimolare il sistema immunitario vengono consigliate dosi da 1 fino a 3 grammi al giorno, e in questo caso la forma preferibile è quella liposomiale, che permette un assorbimento facilitato. Una rivisitazione di vari studi riguardanti l’integrazione di vitamina C in personale militare avrebbe dimostrato una consistente riduzione dell’incidenza e della severità di infezioni respiratorie.
Queste osservazioni e rilettura di studi, fonte di deduzioni logiche, incrociate con la sperimentazione clinica, portano a proporre l’utilizzo della vitamina C nel trattamento e prevenzione delle infezioni virali a fronte di due dati degni di nota: il primo è che nei pazienti ricoverati, affetti da malattie infettive acute, la presenza di vitamina C circolante nel sangue era particolarmente bassa, il secondo è che la vitamina C, come un bravo motivatore, è in grado di esercitare un’azione stimolante sulla formazione di cellule antinfiammatorie (interferoni), contrastando al tempo stesso la produzione delle citochine pro-infiammatorie.
Da qui nasce il suggerimento (pubblicato online su «Lancet», 2020) che l’utilizzo medico-ospedaliero di alte dosi di vitamina C, per via intravenosa, possa essere una nuova (ma vecchia!) potente arma per il trattamento delle affezioni respiratorie da coronavirus, da affiancare alla terapia farmacologica più convenzionale. Scommetto che non ne sarebbe rimasto sorpreso il rimpianto doppio premio Nobel Linus Pauling, considerato il maggior fautore al mondo dell’utilizzo terapeutico di questa vitamina.
Vitamina D
La vitamina D, nota come “vitamina del sole”, è uno dei nutrienti più importanti e potenti per il supporto del sistema immunitario.
Numerosi studi hanno dimostrato che aiuta a ridurre il rischio di raffreddore e influenza. Sfortunatamente, un’alta percentuale della popolazione ne è carente, quindi l’integrazione giornaliera (idealmente sotto forma di vitamina D3) offre la migliore protezione.
La vitamina D3, in realtà è un ormone steroideo, è un modulatore del sistema immunitario che riduce le citochine infiammatorie, ne favorisce la maturazione delle cellule e aumenta la funzione dei macrofagi. La vitamina D stimola anche la produzione di potenti peptidi antimicrobici (AMP), che esistono nei neutrofili, nei monociti, nelle cellule Natural Killer e nelle cellule epiteliali del tratto respiratorio.
La vitamina D collabora con la vitamina A al mantenimento dell’integrità dell’epitelio della mucosa intestinale limitando il passaggio di microbi. Recentemente è stato scoperto che sulla membrana dei linfociti T, che sono proprio le cellule del sistema immunitario preposte alla difesa contro le infezioni virali, esistono dei recettori, cioè delle specie di antenne che cercano la vitamina D. Questi linfociti T diventano efficaci contro i virus solo se vengono attivati dalla vitamina D.
Vari studi suggeriscono che l’integrazione di vitamina D può prevenire le infezioni delle vie respiratorie superiori. Tuttavia, vi sono alcune controversie sul valore di laboratorio che dovrebbe essere raggiunto. Fatto è che la maggior parte dei pazienti ricoverati in terapia intensiva per COVID-19 aveva livelli di vitamina D inferiori a 10 ng/mL, quando il target minimo è considerato 30, non giustificabile da ridotto apporto alimentare e mancata esposizione al sole. Non si sa se questo sia in parte causa o/e causato dalla malattia, oppure se contribuisca l’elevata quantità di grasso corporeo presente nella maggioranza dei pazienti che funge da sequestratore della vitamina stessa, essendo la vitamina D una vitamina liposolubile. Sembra che un intervallo di laboratorio compreso tra 50 e 80 ng/mL di siero 25-idrossi-vitamina D possa aiutare a ridurre il rischio dell’infezione da COVID-19.
Questi valori sarebbe meglio raggiungerli tramite una integrazione alimentare mirata già prima dell’inverno in quanto il SARS-COV 2 è un virus con infettività in aumento con temperature e livelli di umidità più bassi. I dati emergenti suggeriscono che l’insufficienza di vitamina D sia un fattore base della gravità dell’infezione COVID-19 e in uno studio è stato messo in evidenza che il 100% dei pazienti COVID-19 ricoverati in terapia intensiva di età inferiore ai 75 anni aveva un’insufficienza di vitamina D. A tale proposito, il radiologo Mark Alipio ha analizzato i dati di 212 pazienti con infezione da coronavirus e nello specifico ha utilizzato i dati raccolti da tre ospedali dell’Asia meridionale. Egli ha iniziato le sue indagini conoscendo due parametri di base: lo stato di vitamina D dei pazienti e la gravità della loro condizione. Attraverso tecniche statistiche, Alipio ha determinato la relazione tra i due: quando il livello di vitamina D era superiore a 30 ng/ mL, i sintomi da infezione per coronavirus erano quasi sempre lievi – perciò polmonite, febbre, difficoltà respiratorie e ricovero in terapia intensiva erano risultati rari in questo gruppo – al contrario, quando il livello di vitamina Dera minore, le possibilità che l’infezione provocasse i sintomi gravi della malattia sono risultate maggiori. In altri studi si è visto che i fibroblasti polmonari sono in grado di metabolizzare la vitamina D3 nella forma attiva e che la fibrosi polmonare viene ridotta da una dieta ricca di vitamina D3. In conclusione, sapendo che la vitamina D3 viene attivata localmente nei tessuti polmonari, si può affermare che un elevato apporto dietetico di vitamina D3 può avere un effetto preventivo contro la polmonite interstiziale. Inoltre, recenti studi hanno messo in relazione la carenza di vitamina D con la prevalenza di alcune malattie autoimmuni, in quanto la vitamina D modula la produzione degli anticorpi da parte dei linfociti B, che invece vengono prodotti in eccesso in caso di malattia autoimmune.
La vitamina D stimola la produzione del glutatione, il più potente antiossidante e disintossicante del nostro corpo ed è a sua volta influenzata da esso, in quanto una carenza di glutatione impedisce l’assorbimento della vitamina D. Il dosaggio della vitamina D3 rappresenta un valido indicatore dello stato nutrizionale. La mancanza cronica di esposizione alla luce solare (ormai generalizzata a causa delle attività lavorative prevalentemente al coperto), l’invecchiamento che è legato alla perdita della capacità di convertire la vitamina D dall’esposizione solare, le diete vegane o troppo restrittive, un deficit di assorbimento anche legato a diete povere di grassi possono causare stati di carenza per questa vitamina.
Zinco
Lo zinco è un minerale che svolge un ruolo significativo nel rafforzare l’immunità, inibisce la replicazione virale e una sua carenza è legata a specifiche alterazioni del sistema immunitario e a un aumentato rischio di infezioni da patogeni. La riduzione dei livelli di zinco causa l’attivazione impropria delle cellule immunitarie e la disregolazione della citochina IL-6, una proteina che influisce sull’infiammazione cellulare.
Il meccanismo è principalmente legato all’effetto di modulazione che lo zinco esercita sui geni che regolano questa citochina infiammatoria, riducendo il rischio di “tempesta citochinica”. La sua carenza è associata a un’infiammazione cronica. Inoltre, lo zinco sostiene la funzione del timo, del midollo osseo e della milza e favorisce lo sviluppo e la funzione dei linfociti T e l’attività dei macrofagi.
Lo zinco può aiutare a ridurre la frequenza delle infezioni, nonché la durata e la gravità del raffreddore quando assunto entro 24 ore dall’esordio ed è in grado di inibire la replicazione del coronavirus.
Questa inibizione della replicazione virale, quando la carica virale è ancora bassa, è molto importante perché in questo modo può permettere al sistema immunitario di avere la meglio sul virus.
Dal momento che non esistono nel corpo dei depositi di zinco, è necessario un suo apporto continuo con l’alimentazione e l’integrazione.
Lo zinco, inoltre, esercita un effetto antiestrogenico e anche questo è molto significativo, perché un eccesso di estrogeni comporta una tendenza all’ipossia, all’infiammazione, a un deficit della funzionalità mitocondriale: tutte situazioni che favoriscono la replicazione virale. Una sua carenza è inoltre legata a bassi livelli di testosterone.
Lattoferrina
La lattoferrina è una glicoproteina capace di sottrarre il ferro non legato dai fluidi corporei e dalle aree di flogosi, con capacità due volte superiori rispetto a quella della transferrina, così da evitare il danno prodotto dai radicali tossici dell'ossigeno e diminuire la disponibilità di ioni ferrici per i microorganismi che invadono l'ospite.
È dotata di attività antivirale e antibatterica, nonché considerata uno tra i più importanti fattori dell'immunità naturale non anticorpale. È presente nel latte vaccino e nel latte materno e pare che sia questa la ragione per cui i neonati sembrano esser immuni al virus SARS-CoV-2.
Si trova nelle mucose e nei granuli dei neutrofili insieme ad altri fattori quali il lisozima e la lattoperossidasi e suoi recettori specifici sono presenti sulle cellule epiteliali a livello delle mucose, sui linfociti, monociti, macrofagi e piastrine.
La lattoferrina inibisce sia direttamente che indirettamente i diversi virus che causano malattie nell’uomo. Inoltre, aumenta la risposta immunitaria sistemica all’invasione virale e nello stesso tempo un suo derivato peptidico agisce come antitrombotico.
In uno studio appena pubblicato dal team dei clinici dell'Università di ”Tor Vergata”, insieme ai colleghi dell'Università “Sapienza”, sulla rivista «Journal of Molecular Sciences» sono stati approfonditi i meccanismi d’azione della lattoferrina, suggerendo l’utilizzo di quest’ultima nel trattamento dei pazienti Covid positivi paucisintomatici e asintomatici. I risultati ottenuti nei pazienti hanno dimostrato, per la prima volta, la sua efficacia nel favorire, senza effetti avversi, la remissione dei sintomi clinici nei pazienti Covid-19 positivi sintomatici e la negativizzazione del tampone già dopo 12 giorni dal trattamento. L’utilizzo della lattoferrina contro il Covid può essere considerato anche in termini di prevenzione come un’arma efficace nel controllo del contagio.
Quercitina
È un flavonoide dotato di notevole effetto antivirale, antinfiammatorio e di modulazione del sistema immunitario. Ha un effetto antiossidante riducendo i radicali liberi nel plasma. È stato dimostrato che la quercitina ha effetti antivirali contro sia i virus RNA (influenza e coronavirus) sia i virus DNA (Herpes virus). Promuove l’eradicazione e l’inattivazione virale e ne inibisce la replicazione interagendo con la emoagglutinina virale che normalmente permette al virus di penetrare nella cellula.
La quercitina ha un molteplice ruolo sia come antiossidante che antinfiammatorio, favorendo la guarigione post-virale e il ripristino della funzione e interviene nel riassorbimento dello zinco a livello cellulare.
Lisozima
ll lisozima è uno dei fattori della immunità aspecifica cellulare ed umorale. I principali effetti farmacologici della sostanza sono rappresentati dalle azioni antibatterica, antivirale ed immunomodulante.
Nei riguardi dell’attività antivirale, la molecola interviene durante la fase esocellulare del virus attivando fattori difensivi (attivazione sistemi immunitari) e/o attraverso una interazione con recettori cellulari di superficie (inibizione dell’attività sinciziogena).
Tuttora nel caso dell’infezione Covid-19 prevale l’idea che la causa degli aggravamenti clinici sia la tempesta citochinica, ovvero una risposta iperinfiammatoria dell’organismo che interviene a replicazione del virus anche ormai cessata.
Vero è che i risultati di un recente lavoro condotto da autori dell’Università di Trieste, dell’International Centre for Genetic Engineering and Biotechnology (ICGEB) di Trieste e del King’s College di Londra, hanno documentato la persistenza di RNA virale in cellule polmonari ed endoteliali e la presenza del virus all’interno di agglomerati cellulari patologici, definiti “sincizi”, originati dalla fusione virus-indotta dei pneumociti, cioè le cellule che tappezzano le pareti degli alveoli polmonari.
Questi sincizi permettono al virus di continuare a infettare senza esporsi allo spazio extracellulare, dove potrebbero essere neutralizzati dagli anticorpi. Quindi il lisozima esercitando la sua attività di “inibizione sinciziogena” permetterebbe al sistema immunitario di avere definitivamente la meglio sul virus.
N-Acetilcisteina
L’N-acetilcisteina è un donatore di gruppi tiolici-SH (gruppi sulfidrilici) in grado di aumentare la produzione endogena di glutatione (GSH), che è un potente antiossidante endogeno.
Recenti studi suggeriscono che l’equilibrio redox (ossido-riduttivo) delle cellule del sistema immunitario rappresenti un fattore fondamentale per mantenere l’immunità citotossica e che una sua alterazione possa contribuire all’immunosenescenza, diminuendo la risposta contro virus e batteri.
La somministrazione di N-acetilcisteina è in grado di ripristinare questa risposta riportando in equilibrio il sistema redox. Inoltre, questi gruppi sulfidrilici dell’N-acetilcisteina sono in grado di perturbare l’equilibrio di interscambio tiolo-disolfuro impedendo l’ingresso del virus nelle cellule ospiti.
La scissione dei ponti disolfuro da parte della N-acetilcisteina distrugge i componenti strutturali delle proteine interagenti, compromettendo così l’affinità di legame del recettore e l’agente infettivo. Il gruppo sulfidrilico della NAC inibisce l’enzima di conversione dell’angiotensina, riducendo la produzione di angiotensina II.
Dopo l’infezione, l’ingresso virale inizia con l’attaccamento della proteina spike (S), espressa sull’involucro virale, all’enzima di conversione dell’angiotensina II sulla superficie degli alveoli polmonari. Quindi, la N-acetilcisteina può impedire l’ingresso del virus limitando l’interazione dell’enzima di conversione dell’angiotensina con la proteina virale e l’internalizzazione del complesso recettore-virus all’interno della cellula.
In un recente rapporto dell’11/8/2020 i ricercatori del Memorial Sloan Kettering Cancer Center hanno affermato: “la somministrazione orale di N-acetilcisteina (NAC) può essere proposta a scopo preventivo finalizzato ad attenuare il rischio di sviluppare COVID-19 e la sua gravità durante i periodi epidemici”.
Il parere professionale del Dott. Massimo Spattini si basa su studi scientifici internazionali e sulla sua esperienza di medico chirurgo specializzato in Medicina dello Sport e in Scienze dell'Alimentazione. La diffusione dell'articolo da parte di Vitamincenter ha esclusivamente valore divulgativo e non vuole essere in alcun modo un’indicazione terapeutica.